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      Questa mala condizione di cose viene dall’abolizione dei comuni agrari. Restauriamo dunque gli antichi ordinamenti, e l’antica legge sulla proprietà, che dava ad ognuno una quota fissa ed inalienabile di terra. Allora tutti avranno il loro campo da coltivare; le messi saranno consumate da chi ha lavorato il campo che le ha prodotte: la ricolta delle terre non sarà divisa, con chi non ha partecipato nel lavorarle. Inoltre non potendosi accrescere la proprietà rurale, non si avranno ricchi opprimenti il povero; ognuno, per vivere, dovendo coltivare il suo.
      La convenienza di ripristinare le aziende agrarie degli antichi (tsing-t’ien), è stata molto discussa da’ savii della Cina. Vi fu chi propose di togliere la terra a chi ne aveva troppa, per darla a chi non ne aveva. Ma i ricchi non l’avrebbero tollerato con pazienza; e questa usurpazione avrebbe dato cagione a contese, a guerre, a sterminj, a sconvolgimenti politici, peggiori del male al quale si voleva riparare. I sovrani della schiatta degli Han, che ebbero il trono poco dopo la distruzione dell’antico regime (206 a. C.) per opera degli Ts’in, avrebbero essi potuto rimediarvi, non essendo la mala usanza della nuova legge ancora ben radicata. Ma essi [101] potendo non lo fecero, attirandosi il biasimo dei posteri. Ai tempi nostri invece (1009-1066 d. C.) ancorchè s’inducessero i ricchi a rinunziare di buona voglia a’ lor possedimenti, a favore dello Stato; per quanto il governo e il popolo s’adoprassero a ricomporre l’assettamento agrario dei Cheu, non si riuscirebbe ad effettuarlo


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La vecchia Cina
di Carlo Puini
Editore Self Firenze
1913 pagine 246

   





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