Delle quali imagini il sugo è questo: Intendo che l’opera mia appartenga egualmente alle due metà del secolo: perciò mando fuori il primo volumetto colle ultime rape del cinquanta e manderò fuori il secondo coi primi ravanelli del cinquantuno.
Giacchè mi è riescito di trascinarvi sulle idee grandiose, uditene ancora una, e così la prefazione sarà adattata al libro, a un dipresso come la stupenda sinfonia guerriera della Gazza ladra s’attaglia alla fiaba d’un uccello che nasconde i cucchiaj. Uno di questi giorni monta da me un tale, e mi prega di leggergli un poco del mio lavoro. Lo servo, e, durante la lettura, vedo occhiacci e visacci, e sento una filza di ah, di oh, di uh: ed io tranquillamente «Ih, capisco che non ti piace, eh? — Non dico questo, ma è un prodotto fuori di stagione, un anacronismo: però, sai? diventerebbe una cosa eccellente, facendola passare sotto all’aspetto d’una grande ironia.» Queste parole mi fecero irrompere nella fantasia un ordine di idee nuove, e mi sentii nel petto un vulcano. Passeggiando concitatamente innanzi indietro per il mio studio, come una belva feroce nella gabbia di ferro, gridai: «Sì, sì, deve essere in questo modo, anzi è: ecco il vero concetto: non aveva trovata l’espressione, ma il pensiero mi bolliva terribilmente nel cervello. Appunto; una grande, una crudele ironia, mifistofélica, satanica: il convulso e beffardo cachinno della disperazione che esce dall’averno! Dietro ad ogni pagina si travederà la faccia dell’autore con la bocca fino agli orecchi, con gli orecchi fino.
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Intendo Gazza
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