Ma alcuni vorrebbero sapere almeno (giacchè la questione va a ridursi fino a questo punto) se quando l’autore scriveva pensava a loro. Miei cari, dimandate all’ape qual sia precisamente il fiore che gli fe’ generare l’ultima stilla di miele. Fu un fiore del prato, e i fiori per generi e specie si rassomigliano tutti. Perciò, Gaspare, Bertoldo, Zaccaria, sareste matti a credere che io abbia voluto parlare di voi: io parlo degli usi del popolo; quindi, senza volerlo, degli usi vostri, perchè siete del popolo, e compite la vostra missione providenziale a fare da popolo. Sono del popolo anch’io, e me ne vanto: se non che voi, dando pranzi in casa vostra appartenete, per così dire, al popolo sovrano; mentre io sono di quel popolo suddito che va a pranzare in casa altrui. Questo però mi accadeva una volta: dopo l’esilio e la consunzione, io non pranzo più da nessuno; e se vi sembrasse che lungo il mio discorso io cadessi in qualche contraddizione, mettendomi, per esempio, a tavola a cioncare allegramente con voi; per carità non credetemi: sarà tutta finzione poetica per dare naturalezza ed evidenza alle mie lezioni; ma voi ritenete per inconcusso quanto ora vi annunzio: che cioè io non pranzo mai, assolutamente mai, da nessuno. E ciò sia detto per convincervi sempre più dell’impossibilità di allusioni a chichessia. Io lavoro a reminiscenze lontane e confuse; sopra tipi che nessuno conosce, che non conosco più nemmen io, che forse non esistono più. Scrivo ancora riferibilmente a Milano, dove ho fatto i miei studii pratici; secondo le idee vigenti in Milano; come se fossi ancora in Milano, a quei tempi (o tempora!
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