Ma come si fa a pranzare in buona società? Io, rifiutando l’idea della venale osteria, non vedo che due modi: o andare a cercarla in casa altrui, o attirarla in casa propria. Per il primo caso abbisognerebbe un trattato sull’arte di farsi convitare, su di che forse discorreremo un’altra volta; per ora amo meglio trattenervi del secondo caso, che sotto varii rapporti facilita anche il primo, e quasi lo include. Dunque, quando alcuno di voi ha deciso di dare un pranzo, e fissato il giorno, che cosa ha da fare? scegliere i commensali e poi invitarli. Mi riesce comodo invertire l’ordine delle idee, parlando subito dell’atto d’invitare, e poscia delle persone da invitarsi.
Il modo più volgarmente adoperato tra noi per invitare uno a pranzo, si è di pregarlo a venire il tal giorno a far penitenza. Questa formola è brutta, disgustosa, e mi ricordo che quando l’udiva fin dalla prima puerizia, mi suonava istintivamente antipatica. Ora, notate che le antipatie anche le più istantanee e non ancora ragionate, non sono altro che il rapido e confuso senso di quelle ragioni che pur sussistono, e che non abbiamo o il tempo o la volontà o la capacità intellettuale di sviluppare. Far penitenza! ma di qual colpa, io dimando, e perchè in casa vostra? Tocca al confessore e al missionario d’inculcarci la penitenza: gli amici devono fornirci i piaceri e le gioje. Quella frase è poi sempre bugiarda e ipocrita, se non nel fatto, almeno nella intenzione. Il vostro convito riescirà pur troppo una grave e lunga penitenza, se non saprete evitare la maggior parte degli inconvenienti che io verrò additandovi; ma il vostro desiderio e la persuasione vostra sono di far passare agli invitati alcune ore piacevoli e graditissime.
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