E quì notate che tutto ciò è in piena regola quando accade all’ora debita e in compagnia degli altri: ma quattr’ore prima diventa un ridicolo anacronismo. Difatti gli amici vi fermano, sogghignano, vi fanno confessare il vostro secreto, e vogliono cavarsi cento curiosità, come diamine sia avvenuta la cosa, se il vostro ospite abbia la coda, o almeno se sia della confraternita, e se la minestra era ben satura di lardo, e se il vino era grosso, e se vi abbiano dato il rosolio di garofani. È una disperazione. Alle cinque, quando il mondo si ritira, si va, tanto per ammazzare un po’ di tempo, ad assistere al desinare d’una famiglia di confidenza. Ma, oimè! è una gran noja, quando si sta digerendo, a osservare gli altri a mangiare. Pare fino impossibile che si abbia a trovar gusto nel cacciar giù quella minestra e quel manzaccio. Anche l’atto del mangiare assume un aspetto sguajato e triviale: tutto l’individuo, fosse pure una Saffo, o una Corinna, non si annunzia più che sotto i rapporti d’una macina, di un frullone, di un laboratorio chimico: e si pensa con che pazza disinvoltura l’umanità abbia da un bisogno cavato fuori argomenti di piaceri, di abusi, di mali infiniti; si giugne a ripetere certi periodici proponimenti di temperanza e frugalità, che poi svaniscono colla notte: insomma si passa per tutte le stramberie della filosofia morale, sentimentale e animale: e tutto ciò per aver pranzato a un’ora brutale.
Quì parmi sentire alcuno degli uomini del mezzodì (che vi prego a non confondere con gli uomini del sud) a dimandarmi se dunque non potranno più procurarsi la fortuna di convitare persone di garbo.
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Saffo Corinna
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