Vedetelo a tavola: giacchè, per quanto vi collochiate lontano da lui, un’attrazione magnetica vi spinge a sogguardarlo, come dicesi avvenga dell’usignuolo in vista della serpe: eccolo là che ride e ciarla e mangia, anzi divora, con un abbandono e una pienezza di sentimento come se fosse in pace con tutti, come se tutto il mondo fosse suo. E difatti, rapporto a voi, tutto il mondo è suo, poichè siete suo voi, e vi trovate nella di lui terribile podestà. Che se il di lui sguardo s’incontra col vostro, egli mette fuori per voi, tutto per voi, e impercettibile a chiunque altro, un sogghignetto infernale che sembra dire: «Amico, non ti dimentico; ci rivedremo!» Per un povero diavolo che sia posto a questo eculeo, il pranzo deve pur riescire indigesto, venefico e degno di essere evitato a qualunque costo; a costo, per esempio, di affrontare debiti nuovi.
Ora, dico io, tocca all’umanità e alla filosofia del secolo onniveggente a impedire simili sciagure; a non permettere che l’ospitalità diventi inconsapevolmente barbara e micidiale. Ma come si fa? per l’addietro la cosa è sempre camminata nei modi seguenti: o andare al pranzo coll’olio santo in saccoccia, come suol dirsi, cioè a tutto rischio e pericolo di funesti incontri: o dover dimandare all’invitante l’elenco dei commensali, e se ci verrà il tale, e se ci sarà il tale altro, e se mai sia probabile che capiti Cajo, e se mai possa darsi il caso che sopragiunga Sempronio. Ma come si fa per quelli che avrebbero bisogno di chieder conto di mezzo mondo?
| |
Cajo Sempronio
|