CAPITOLO QUINTO
Oh, finalmente siamo seduti a tavola. Cari amici, v’ho fatto venire la fame un po’ lunga, eh? ma si mangerà con tanto più di appetito. C’era un profluvio di temi a trattare; e poi il pranzar tardi è sempre, come vi ho già detto, una cosa di genere nobile, elevato. «Ehi, Giorgio? perchè non hai fatto portare i lumi? — Ci si vede ancora mediocremente. — Oibò, quel mediocremente! S’ha da vederci benissimo e moltissimo. Poco dopo la minestra saremo al bujo, e questa meschina e melanconica luce di crepuscolo sarebbe appena tolerabile se fossimo alle frutta; non mai quando si comincia. Mi è capitato varie volte di trovarmi via a pranzare, e non veder più cosa mangiassi: è una oppressione di cuore da diventare idrofobi dalla rabbia; e si pensa: — Come mai questi birboni sono così ottenebrati d’intelletto da non capire che la luce è la vita, e che perfino le bestie ne sono avide e ne gioiscono? — Quì non è ancora il caso; ma lo sarà prima d’un quarto d’ora. E poi, quell’entrare nella sala da pranzo e trovare addirittura una bella luce artificiale, è una delle poche gioje del tetro inverno. È un subitaneo e consolante distacco dalla neve, dalla nebbia, dalle nubi, da tutte le miserie del mondo esteriore: e rassomiglia alla felicità di quei beati che morendo volano subito in paradiso senza passare per le pene del purgatorio. Molti, per procurarsi questo piacere, ritardano espressamente l’ora della tavola; e alcuni, che non hanno tanta flemma, anticipano la sera chiudendo le imposte.
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Giorgio
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