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      ... che insomma a tavola per prima cosa si mangia la minestra.
      Però ammetto la possibilità di qualche rara eccezione, motivata da cause straordinarie; e, per accennarne una sola, dirò che d’autunno in villeggiatura, quando si protrae il pranzo fino a sera, accade talvolta di ritornare un po’ tardi da una lunga trottata allora, colpiti da una fame fulminante, ci precipitiamo nella sala da pranzo senza esservi chiamati, e intanto che bolle la minestra si ordina che il cuoco mandi subito per carità qualche cosa o cruda o cotta, la prima che gli capita per le mani, altrimenti nasce pericolo di consumare tutta la provigione del pane prima di cominciare il pranzo. Ma, replico, sono strane eccezioni, casi di anarchia, poco meno che di assalto e di barricate.... (ve ne risovvenite, eh? poveri noi!) ed è appunto in tali circostanze che le ordinarie leggi non hanno più vigore.
      «A proposito, che cosa ci dai oggi per minestra? — Se te lo dico, tremo d’una tua fierissima confutazione. — Via, parla; già dobbiamo saperlo a momenti: vedrò di usare indulgenza. — Ti do una minestra di risi, cavoli e fagiuoli, con un pochettino di sedano e carote, brodo superbo di manzo e cappone, una buona pestata di lardo, e quattro fettine di cotica di majale. — Ah Giorgio, mi hai toccato il cuore! senti: tu puoi fallare perchè manchi di una esperienza di genere distinto, ma in fondo hai ottime disposizioni, e io spero di farne un uomo. Ciò che tu mi descrivesti timidamente e in aspettazione di un rimprovero, è nientemeno che la galba per eccellenza del nostro buon popolo milanese, la minestra delle minestre, che noi perciò onoriamo col nome energico di minestrone, del quale beato chi può cibarne alla sera, così in piedi, una scodella fredda, se anche fosse reduce dalla mensa di Epulone: giacchè per certe vivande un posticino si trova sempre.


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L'arte di convitare spiegata al popolo
di Giovanni Rajberti
Editore Bertieri Milano
1937 pagine 212

   





Giorgio Epulone