E la si mangia dopo averla direi quasi vangata col cucchiajo che vi resta dentro confitto come la zappa in fertile terreno inumidito appena da un po’ di pioggia. Delizie ineffabili, riservate ai ventricoli omerici della gente alla buona, e sconosciute perfino ai monarchi: i quali d’altronde, colla corona in capo o lo scettro in mano, devono pur fare dei grandi sacrificii di gola, non potendo mai discendere a dare un’occhiatina in dispensa: oh, non vorrei essere un re! E ci vuol proprio il condimento speciale del lardo: e fo questo rimarco perchè molti aristocratici, e anche taluni plebei rifatti, per affettazione di gusto schizzinoso, inorridiscono al solo sentirne parlare: povera gente! Dillo tu, Giorgio, che hai tanto buon senso nella minestra, come si possa mangiar fagiuoli e cavoli senza lardo: e la nostra famosa verzata lombarda, consolazione e ristoro delle lunghe serate invernali, è possibile imaginarsela senza lardo? Sarebbe come figurarsi un marchese senza stemma, un usurajo senza crudeltà, un vescovo senza prebenda, che finirebbe ad essere un vescovo in partibus, cioè privo delle parti più essenziali, il vescovado e la mensa. Così la verzata senza lardo e senza cotica di majale. Le buone minestre io le divido in due grandi categorie: minestra nobile o del cuoco, minestra plebea o della serva. La prima più dottamente artificiale, confezionata con sughi delicati e leggieri, mi renderebbe l’idea di una bellezza sfumata, aerea, di una silfide d’Albione, dai capelli dorati, dalle pupille cerulee, dalla pelle alabastrina.
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Giorgio Albione
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