E questo mio parere che ti do con la massima riserva diventa poi un precetto indeclinabile, quando durante il pranzo ci sia qualche altro piatto di carni porcine. Giorgio, ritieni bene questa massima: a una tavola è permesso di servire ripetutamente il pollame, il vitello, la selvaggina, purchè sieno variamente manipolati: ma di majale, comunque siasi, basta una volta, per carità! perchè è un cibo pieno di pepe e di sale, unto, acre, indigesto, e tanto più sano quanto meno se ne mangia. E ti dico questo perchè nel buon popolo abbondano le famiglie così perdute di gusto culinario, che con una buona fede incredibile sono capaci di affidare i principali onori d’una mensa al truculento majale. Senti questa, e inorridisci, perchè è cosa da far venire l’indigestione e le afte in bocca solamente a narrarla. Saranno già quindici anni che io fui convitato con una mano d’amici in casa di un amico commune: e ciò fu la nostra salute perchè, avvezzi a dirci roma e toma sul viso, la rabbia dell’occorso non ci restò compressa sullo stomaco dalla dissimulazione. Si principiò il desinare col solito salame di tutti i colori e di tutte le spezie: pazienza. Dopo qualche piatto, capita in tavola un gran zampone con lenti: a quella vista fu un dimenarci sulle seggiole e un gridare per istinto simultaneo: «Ohe! ci dai ancora del porco?» E uno diceva che era una satira omeopatica appoggiata alle parole similia similibus curantur: un altro richiamò l’esempio della marchesana di Monferrato che servì al re di Francia un pranzo tutto composto di galline, come racconta quel lepidone superlativo di messer Giovanni Boccaccio: insomma ognuno disse la sua.
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Monferrato Francia Giovanni Boccaccio
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