»
CAPITOLO SESTO
È qualche tempo che Giorgio risponde a stento, e s’è fatto serio: diamine! che gli fosse salita la mosca al naso per l’affare delle candele di sego? Io ve l’ho pur detto che la verità per solito è una prosaccia che disgusta. Ebbene, lasciamolo tranquillo e torniamo a discorrere con gli amici di prima. A costo di una marcatissima sproporzione fra le parti del mio discorso, sarò molto breve, e mi terrò sulle generali circa al resto del pranzo, poichè infine cosa s’abbia da mangiare e come, tutti lo sanno: e questa è piuttosto opera del cuoco che mia. Ho voluto difundermi un poco sul primo dar mano al cucchiajo e alla forchetta per dimostrare quanta estetica contenga la sola minestra, e in qual torrente di filosofia logica possa nuotare un salame. Sopratutto apprenderanno i mal pratici che sulle minime cose si può, anzi si deve sottilmente ragionare; e per paura di grossolani errori avranno ricorso agli intelligenti dell’arte per lasciarsi dirigere nei loro conviti. Ma se io dovessi dilungarmi egualmente su tutta la partita materiale del pranzo, e discutere su ogni briciola e ogni stecco, finirei a darvi un volume grosso come il calepino delle sette lingue, e allora addio popolarità: avrei scritto solamente per i dotti che d’ordinario sono proprio tra quelli che non possono mai convitare.
Principal pecca dei conviti popolari è che non si rispetta la gran massima ne quid nimis, tanto raccomandabile anche nelle ottime cose. Domina una certa paura di non poter mai farsi abbastanza onore, e quindi si mettono in una specie d’orgasmo che li fa passare in tutto quella calcolata e sapiente misura che è primo elemento del bello in ogni arte.
| |
Giorgio
|