Perciò piatti a profluvio, e troppo conditi e sapidi, e un predominio di vivande d’indole soverchiamente calida e stimolante. È ben raro il caso di trovare un pasto confidenziale e leggiero che ci faccia risovvenire del famoso motto di Ottaviano Augusto, il quale invitato da un patrizio romano a una cena non abbastanza degna di lui, gli disse nell’accommiatarsi: «Io non sapeva di esservi tanto amico» (che epigramma immortale! ci sta dentro tutto un Voltaire). Ma avviene assai più di frequente che i desinari d’invito sieno di così opprimente lunghezza, e ci sia tanta roba che sembrano fatti per saziare gli elefanti e le balene. Perchè mai dodici, quattordici pietanze e peggio ancora? Si porta intorno un ventricolo solo, miei cari, e non si può insaccare le vivande nelle coscie o nelle gambe. Perciò quella gran sequela di cibi è una superfluità assurda come i popolatissimi harem dei principi maomettani; e noi dobbiamo lasciarla a gloria esclusiva della gentaglia denarosa, quando celebra nozze, e vuol farsi ammirare dal rozzo parentado. Là tutto è in armonia; e la sposa grassa e rubizza, con indosso tutti i colori dell’iride e mezza bottega d’orefice, incoraggiata assiduamente con la voce e coi gomiti a mangiare, risponde sghignazzando: «Sono piena che non ne posso più», e fra gli evviva assordanti scaglia manate di confetti in volto agli avvinazzati commensali.
Un pranzo di buon gusto, lontano egualmente dalla parsimonia come dalla matta ostentazione, dovrebbe constare, a mio debole avviso, di cinque piatti o, al più, sei: i tre d’obligo, frittura, lesso, arrosto, con qualche altro intermedio.
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Ottaviano Augusto Voltaire
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