La cosa è ben differente alle tavole del popolo. Ci si va di solito credendo di sedere a un pasto d’amicizia, e questa opinione è confermata e ribadita dai padroni di casa che protestano di non aver fatto nulla più del quotidiano, anzi raccommandano di pensar bene a provedersi in principio per non trovarsi corbellati dopo: e vi obligano ad andare in seconda di tutto, del qual disordine parleremo più avanti. Perciò si mangia e si mangia: arrivano poi i piatti fini per gli ultimi, quando la maggior parte dei convivi non si trova più in lena da far loro le meritate accoglienze: e allora, oh che rimorso d’essersi lasciati menar via con tanta spensieratezza e imprevidenza dal salame, dalla frittura di cervello, dal manzo, che sono i cibi di tutti i giorni! Rimorso molto paragonabile a quello di coloro che avendo abusato della vita in gioventù, sono condannati a passare una virilità inetta e inerte.
Ma v’è ben altro ancora. A quelle massime mense le cose camminano con una speditezza meravigliosa. Maggiore il numero delle persone che servono, di quelle che si fanno servire: è un esercito che lavora con evoluzioni simultanee, precise, serrate. Chi apporta, chi ritira, chi taglia, chi stura: a ogni piatto vi armano d’una posata nuova, vi offrono una salsa omogenea, vi versano un apposito vino. L’anima e i sensi sono continuamente e seriamente occupati, e sembra di essere sotto all’incantesimo di una fantasmagoria. Ai prodigi della cucina succedono quelli della credenza, ossia la seconda tavola, più ricca e mirabile, se può dirsi, della prima.
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