E ditemi pure insulso, e ditemi frivolo, e ditemi perfino scettico: che queste sono parole le quali passano per le orecchie, ma non frollano il deretano.
Passiamo ad altro. Alcuni mi assicurano che tutta l’Arte di convitare non vale un’ugna del mio Gatto. Oh diamine, sarebbe mai possibile? Dovete sapere che da quindici anni circa che ho l’onore di annojare la patria con gli opuscoli miei, i quali oramai saranno forse una dozzina, sono avvezzo a sentirmi dire di volta in volta che l’ultimo venuto è una ben povera cosa in confronto al suo predecessore. Se la storia cammina d’egual passo anche al presente, questo povero secondo volumetto sta fresco. Fanno precisamente come i contadini quando parlano dei ricolti, che si lamentano sempre dell’annata in corso, e non la lodano mai che l’anno appresso. Cosicchè, data la mia progressione continua dal bene al male, o dal male al peggio, a quest’ora dovrebbe riescire molto più sapido e rallegrante il leggere l’inventario dei mobili d’una casa con negozio annesso, dettato da un rigattiere; o un lungo istromento di divisione fra coeredi, a rogito d’un notajo ottuagenario.
Del resto, se mai volevate significarmi che il Gatto è un gran bel libro, stringiamoci la mano che siamo pienamente d’accordo. Gli autori sono come le mamme innamorate dei proprii bimbi: per quanto diciate loro che Bernardino o Antonietta sono angioli di grazia e di bellezza, non direte mai tanto che salga al livello della loro persuasione. Anzi, non vorrei riscaldarmi il sangue a confutarvi se arrivaste a sostenere che il Gatto è un opuscolo divino: e sì che almeno l’argomento è di natura bestiale.
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