Gli dirò il basso popolo? è già troppo pel vostro bel cuore, e pel mio fare rozzo è troppo poco; e poi lascia ancora incompleto il concetto. Ho da chiamarlo (col cappello in mano) il signor popolo cencioso e bestiale? Oimè, vedete? mi tirate fuori gli spropositi, cioè le verità che quasi quasi fanno male anche a me. No, no, non mi scappate via turandovi gli orecchi: abbiate pazienza per due minuti ancora, chè dobbiamo separarci se non più d’accordo, almeno più amici che prima. Ditemi di grazia: quelle mie parole a chi fanno male? alla plebaglia, no, certo perchè la povera gente sa appena che al mondo vi sono i libri, ed è lontanissima dal pensare che vi si possa tener discorso di lei. Dunque non si fa male che a voi teoristi: i quali, appunto per la notata tendenza a spingere troppo in là le massime più nobili e belle, finite a contrarre quella irritabilità soverchiamente squisita e anormale, che noi medici siamo soliti a chiamare sensibilità morbosa.
Ma io vi amo e vi stimo assai, anzi ho l’obligo di ringraziarvi per avermi lodato anche troppo in quello che più mi premeva, cioè nei rapporti dell’arte. Perciò vorrei che ultimassimo in tutta amicizia questa discussione, e vi propongo un accomodamento che spero troverete equo e da accettarsi. Eccolo: ogni volta che voi (intendo voi tutti rappresentanti d’una opinione, e almeno quì vorrei che foste un esercito infinito), ogni volta che voi leggerete su d’un mio libro le parole marmaglia, popolaccio, plebaglia e simili, farete l’elemosina di un soldo a un poveretto: e io nelle occorrenze userò ancora quelle parole senza scrupolo, sapendo che faranno un po’ di bene a molti, e nessun male a chichessia.
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