Intanto sappiate in fretta in fretta che gli autori sono sempre inchiodati al dilemma: o vender caro e vender poco, o vendere a poco e restare a mani vuote: che col primo sistema so almeno di che male si muore, e non ho coraggio di tentare la morte per inedia col secondo: che gli sconti librari sono fra noi di una opprimente enormità: che per le opere di non molta e lunga lena, e che non siano spinte da qualche attivissimo intraprenditore, sono incredibili le difficoltà di superare i confini di provincia; talchè poco monta la differenza dello scrivere piuttosto in lingua che in dialetto, quando non ho ancora la consolazione di sapere se mai qualche esemplare d’alcun mio opuscolo sia arrivato a perdersi fino a Napoli o fino a Roma o fino a Firenze: che in Italia lo scrivere non ha mai lasciato mettere a nessuno nè carrozza nè cuoco; e che anzi il mestiere dello scrittore, salvo qualche rarissimo fenomeno di operosità prodigiosa, è il più arrabbiato e povero dei mestieri; e guai a me se dovessi contare seriamente sui profitti della letteratura! Ma di tutto ciò, un’altra volta: per adesso di ciarle ne ho fatte abbastanza, e forse troppo monotone e interessate. Però, trattavasi d’un affare importantissimo, ed è che quando il publico comincerà davvero ad annojarsi della mia penna, io la lascerò riposare per sempre. Ma ho bisogno di persuadermi e persuadere che tale epoca sia ancora lontana: perciò (a imitazione di quel monsignore nel Gil Blas, che avvertito del deperimento della sua sacra eloquenza, trovò di non aver mai composto una predica migliore della sua peggiore) ho dovuto anch’io mortalmente annojarvi per dimostrare l’impossibilità che un mio libro vi riescisse nojoso.
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