10 aprile 1851.
CAPITOLO SETTIMO
Ora vorrei far qualche cenno sui discorsi che si tengono a tavola, e che sono, per così dire, il nutrimento dello spirito. Il campo della parola è sterminato, nè v’ha argomento che non si presti o alla seria discussione o alla ciarla oziosa o al piacevole motteggio. Ma, sta bene il parlare di tutto? Alcuni discorsi sono proibiti dalla buona morale, alcuni altri dalla buona educazione, molti dalla prudenza, moltissimi poi dalla ignoranza o di chi li fa o di chi li ascolta, o di tutti insieme. Cosicchè fra tanti veto che emanano da sì autorevoli tribunali, per certe mense il miglior consiglio sarebbe quello che si dava a Papataci della comedia: mangiare, bere e tacere. Ma come tacere quando si mangia bene, e specialmente quando si beve meglio? E poi, non ci raduniamo allo scopo principale di conversare e far cambio d’idee? Però, dei quattro ostacoli da me enunciati alla libertà del parlare (la morale, la creanza, la prudenza e l’ignoranza) si può dire in genere che i primi tre sono mediocremente rispettati. Non così dell’ultimo; perchè l’ignoranza, quando non si ripari all’ombra del buon senso (caso raro, essendo il buon senso una rarità), è una cosa tutta ingenua, spontanea, inconsapevole di sè stessa al modo di certe virtù primigenie, come la verecondia e l’innocenza. Perciò l’ignorante, fortificato dall’altra virtù naturale ed istintiva, la presunzione, procede franco e sicuro in qualunque discorso, chè a sentirlo sarebbe un bel divertimento, se non fosse un po’ troppo frequente e, per solito, anche un po’ troppo lungo.
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Papataci
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