E noi che nel fiore della vita e della superbia siamo conosciuti appena da poca gente del nostro paese; noi che presto presto saremo nell’infinito numero di coloro dei quali non si parla più affatto; noi per desinare avremo bisogno di un mucchio di posate per ciascuno? In quanto a me, se il trionfo della filosofia volesse un sagrificio, starei al patto di pranzar sempre da principe con una posata sola: e voi?
Ma il principalissimo dei discorsi alle tavole del popolo, il discorso per antonomasia, quello che domina su tutti gli altri, o almeno gli accompagna e gl’interseca, come l’aria che si addossa a tutti i corpi e penetra per ogni buco, è l’eccitare e il costringere i commensali a mangiar molto, e di ogni cosa. «Un altro bocconcino! — Ne ho proprio abbastanza. — Almeno questo pezzetto, è tanto una inezia! — Ma tiri giù, per bacco, lei mangia come un uccellino. — Oh, anzi, ho già disordinato. — A quest’aletta poi non si dice di no; ha ciera di essere così ben cotta. — Andiamo dunque, quante smorfie! o che lei si sente male, o che ha già desinato in casa sua»; e altre mille consimili maniere, essendo infinite le formole con le quali si obliga un povero diavolo a pigliarsi una buona indigestione. Viene in tavola un piatto di polpette: attenti, attenti a Giorgio. «Oh, ecco le famose polpettine della serva: è un cibo un po’ di confidenza, ma è una specialità della mia Gregoria che io preferisco a tutti gli artifizii dei cuochi, e spero che a momenti me ne daranno informazioni. La mia servetta (giacchè è voltata via un minuto) ha mille difetti; lingua lunga, grattar sempre qualche soldo sulla spesa, far all’amore come una gatta, e poi mi beve lei sola mezza la cantina; l’avrei cacciata di casa cento volte, ma non è possibile perchè mi fa queste polpettine che sono un delirio.
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Giorgio Gregoria
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