L’estate scorso, in casa d’un mio coltissimo amico a qualche miglio da Monza ebbi occasione di esaurire tutte le frasi della meraviglia sopra un vino del 1834: eravamo nel 50; vedete che è una bella stagionatura. Era un vino rosso diventato quasi perfettamente bianco a forza di deporre tutta la parte colorante sul vetro. Avea simultaneamente una delicatezza e un vigore, una grazia e una fragranza da farmelo credere un vino venuto da dio sa dove. Ebbene, era di Busnago, un modesto villaggio che non fece mai parlare di sè nè per il vino nè per l’acqua, e che molti de’ miei lettori sente nominare per la prima volta. E come mai s’era ottenuto quel néttare? collo scegliere l’uva migliore, mondarla bene, e lasciarla alquanto appassire: più, con alcune diligenze, che non saprei ripetere, di travasamenti a tempi opportuni. Ora, dimando io, a parità di cure, quali miracoli si otterrebbero dal Montavecchia, per esempio, e dal Monterobbio? e da quei paradisi terrestri che si chiamano le rive del Lario, del Verbano, del Benaco? Ma i pregiudizii, il lusso e la vanità rendono indispensabile ai ricchi il bordò: bisogna che una livrea giri intorno alla tavola annunziando Sauterne! — Lafitte! — Chateau Margaux! E così l’Italia, classica madre dei più classici vini, in cambio di provederne l’Europa settentrionale e tirarne molti milioni, manda (orribile a dirsi) molti milioni all’estero per provedersi di vino. E non c’è da meravigliarsene: non siamo noi perpetui sprezzatori di casa nostra e delle nostre cose?
| |
Monza Busnago Montavecchia Monterobbio Lario Verbano Benaco Sauterne Margaux Italia Europa
|