» Difatti era un vino di quelli che non si lasciano più dimenticare: placido, gentile, fragrante, vaporoso, con una leggier vena di amaro, quasi di melanconia, però di una serietà temperata di grazia come il volto d’una bellissima donna di sangue reale. E lì a versare e a provare di bel nuovo, e a voler indovinare che vino fosse. «Scommetterei che questo è il celebre vino di Chianti. — Oibò, sarà il famoso Montepulciano. — Eh via! questo non può essere altro che il gran Falerno, quel Falerno tanto decantato da Catullo e Orazio là in quei tempi eroici quando i poeti beveano così bene! — Zitti che vien l’oste, e se ascolta queste lodi ce lo farà pagare il doppio del suo prezzo; ehi, come si chiama questo vino? — Vino fiorentino. — Ah per Bacco, dovevamo argomentarlo in forza di analogia, e direi che siamo tre dotti da scarto, se non ne conoscessi moltissimi peggiori di noi: anzi, ritengo che io, io avrei colpito nel segno se aspettavamo a saperlo due minuti ancora: perchè, essendo le cose tutte di questo mondo regolate da leggi mirabili di corrispondenze e di armonia, era facile a capire che dove si parla la più bella lingua d’Italia, là si deve fare il vino migliore. Sì, questo vino non può essere che di Firenze.» E lì, tra un bocconcino e l’altro, a provarlo ancora viemeglio, e a sempre più persuaderci della sua provenienza, e a convalidare il bere coll’elogio e l’elogio col bere. Insomma a furia di attenerci al gran motto di Galileo: provando e riprovando, unico mezzo di riescire ai risultati concludenti e finali e meravigliosi, anche noi siamo riesciti a vedere il fondo del fiasco.
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