Quindi amori, giostre, conviti, spettacoli di vario genere; tutto ciò insomma che costituiva la vita lieta ed elegante del tempo. La Marca n’ebbe gli epiteti di amorosa e di gioiosa.(19)
A quel fervore di civiltà non doveva mancare l’ornamento della poesia e della letteratura. Non già di una letteratura da stufa, quale fu troppo spesso la nostra dopo il rinnovamento degli studi classici; bensì di una letteratura che crescesse all’aperto; di una letteratura, che, come il sangue nel corpo, scorresse per tutte le vene della società. Né ci fu bisogno di [12] creare per venirne in possesso. Bastò sul principio porgere viepiù attento l’orecchio a quelle voci oltramontane, a cui già si dava ascolto. Le quali, grazie alle affinità di razza e ai molti contatti, riuscivano qui non difficilmente intelligibili senza che si dovessero piegare ad altro suono; e quel tanto di sforzo che si richiedeva perché l’intelligenza fosse più piena, facevano di buon grado i signori, meritevoli sempre almeno in parte di quei fieri rimproveri che l’Alighieri incise nel capitolo undecimo del primo trattato del Convivio, «a perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano». E non un solo linguaggio straniero, ma due corsero il paese: il francese per i generi narrativi, il provenzale per la lirica. Quanto al volgo, anch’esso s’ingegnò, e s’ingegnava da un pezzo, di capire; e il francese (del provenzale c’è poco da parlare, perché la lirica provenzale volava solitamente troppo alto per lui) rimase teoricamente il linguaggio dell’epica.
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