E se anche i suoi decasillabi e dodecasillabi avessero sempre rispettato la misura legittima, la tirade monorime non era fatta per noi. Figuriamoci come si poteva mai metter d’accordo coi nostri volgari, trocaici e baritonali per eccellenza, una forma nata per le assonanze e le rime maschili, e che delle femminili avrebbe dovuto servirsi solo per rompere la monotonia! Però un’innovazione era necessaria; né l’Italia settentrionale, colle sue indecisioni in fatto di linguaggio, era il paese meglio preparato per compierla. Colà l’abitudine dell’orecchio, prodotta dalla lunga famigliarità colle favelle di Francia, e insieme una minore distanza dal loro tipo, rendeva anche il difetto assai meno sensibile. Fu dunque la Toscana che eseguì la riforma. Per opera sua alla «lassa», o serie ad una rima, subentrò l’ottava, forma primitivamente lirica, ma popolare più che altra mai, e applicata assai di buon’ora - senza dubbio, nell’opinione mia, fino dal secolo XIII - alla materia narrativa. La tradizione degli eruditi, che la voleva invenzione del Boccaccio, e adoperata la prima volta nella Teseide, intorno all’anno 1340, va messa senz’altro tra le anticaglie.
L’introduzione dell’ottava sembrò forse da principio un mutamento di poco rilievo; eppure noi, che abbiamo il comodo di osservare le cose dopo che sono avvenute e di fare i profeti del passato, possiamo per lei pronosticare sorti splendide alla poesia romanzesca. Senza l’ottava, non il Boiardo, non l’Ariosto. Certo anch’essa ha qualche magagna; del tono lirico, che porta con sé dall’origine, non può spogliarsi del tutto.
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