Ma poi sarebbe la massima delle ingiustizie il disconoscere, che là dove il Boiardo si fa innanzi come riformatore e creatore, l’Ariosto è solo continuatore dell’opera altrui.
Sotto questo aspetto il Furioso non ci presenta dunque una nuova evoluzione del romanzo cavalleresco. Ma sarebbe strano, se per ciò gli si volesse negare un carattere suo specifico, che lo distingua dall’Innamorato, e in generale dalla letteratura cavalleresca anteriore. Che una distinzione ci sia, e spiccatissima, si sente da ognuno. Tutto sta nel rilevarla e definirla rettamente, prendendola dalle cose, in cambio di mettercela di proprio arbitrio. La faremo noi consistere nella cosiddetta ironia ariostesca? Certo starebbe bene, se fosse vero, come si pretende, che l’Ariosto avesse, con un sorriso incredulo, sciolto in fumo l’edificio del Boiardo, e trasformato in fantasmi i personaggi dell’Innamorato. Il male si è che quell’edificio, quei [35] personaggi, erano già una fantasmagoria anche per il Conte di Scandiano. Se Lodovico non crede al mondo che canta e se ne fa giuoco, non ci crede maggiormente e all’occasione non se ne fa meno giuoco il suo predecessore e maestro; se ironia c’è nel Furioso, non ne manca nemmeno nell’Innamorato. E del resto si commettono strane esagerazioni ed abusi a proposito di codesta benedetta ironia. Chi ne fa addirittura la nota fondamentale dello stile ariostesco, mi rassomiglia un pochino a quel tale, che nello spettacolo d’un mare sconfinato non aveva mai saputo avvertire altra cosa che i pesci che tratto tratto si mostravano a fior d’acqua, e a forza di fissarci su l’attenzione e la fantasia, aveva finito per veder pesci su tutta quanta l’immensa superficie.
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