Di dar morte a Rinaldo, ma pentessi.
(XIII.)
In due casi trovo la riflessione morale senza l’invocazione sacra:
Singnior, chicci à ventura e chi ci à sennoIn questo mondo, e chi ci à ria fortuna;
E chi ci à pacie, e chi guerra e disdengnio,
Chi vive lieto, e chi sospir raguna.
Or ritorniamo a que’ che mal la fenno,
La lor vendetta, quando furno(232) ad unaPer volere inpicar quei car fratelli,(233)
Che aveano morti tanti pagan felli.
(XIV.)
Servire e diservir mai non si scorda,
E però servi, e non guardare a cui;
Un bel proverbio fra la gente s’accorda:(234)
A chi diservi, guardati da lui.
Rinaldo per servire ebbe concordiaDal buon re Carlo, ed anco i frate’ sui.
Torniamo al conte Orlando, che dimanda,
Se ’l pro Rinaldo fu per quella banda.
(XXV.)
Un proemio morale di questo stampo, in un’opera composta un secolo e più avanti il Furioso, merita davvero di fermar [101] qui l’attenzione.(235) Tanto più che uno dei proemî dell’Ariosto (c. XXIII) offre anche per il concetto opportunità di confronto. E non c’è luogo a pensare che l’invocazione sacra possa essere stata omessa dal trascrittore. Bisognerebbe allora supporla di una stanza intera, contro le abitudini costanti dell’autore del Rinaldo. Però non mi desta sospetto nemmeno un esordio costituito dal semplice richiamo dei fatti antecedenti:
Io vi lasciai come Carlo e Mambrino
Si riscontrâr nella battaglia insieme;
L’un disse il nome all’altro a suo dimino;
Carlo del re Mambrino alquanto teme.
(XXIV.)
Un tipo diverso, e anch’esso notevole, mi dà il canto XV:
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