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Ciò non impedisce certamente di pensare che l’Ariosto avesse letto il Quadriregio anche prima assai, sicché ancor esso potesse cooperare alla concezione della nostra allegoria. Ma che giova, quando, se la cooperazione ebbe luogo, fu di tal natura, che a noi non riesce di afferrarla bene, e tanto meno di misurarla esattamente? Sicuro: anche nel Quadriregio abbiamo un regno d’Amore, ed un regno di Minerva, o della Sapienza; ivi pure la via che conduce alla miglior sede è erta, e impedita da mostri; ivi pure vediamo un animo ben intenzionato, ma accessibile ancora agli allettamenti del senso, volgersi verso l’alto, e quindi lasciarsi di nuovo attrarre dalle seduzioni del piacere. Tutto ciò è verissimo; sennonché le idee che [177] convengono bisogna cavarle di sotto a un cumulo di particolari e di scene troppo diverse, perché a un ricercatore di fonti sia lecito di proporre questa come l’origine vera. Sicché, istituire paragoni col Quadriregio, sta assai bene; ma a patto di andar cauti, e di non scordar mai che Lodovico può esser giunto alle sue creazioni per tutt’altra via. Certe somiglianze, che alla prima tentano fortemente, non reggono poi a un secondo e ad un terzo esame.
E qui sta pur bene il notare come la rappresentazione allegorica di concetti affini a quelli dell’Ariosto si fosse avuta di fresco, e in forma di ottava rima, per parte di più di un poeta: di Girolamo Benivieni, il quale nell’elegante poemetto Amore dedicato a Niccolò da Correggio(521) mette in scena sé stesso mutato in «leonza» da tale che ha strettissima parentela con Alcina, e rimasto «leonza», senza neppure accorgersi del suo stato, nientemeno che quattordici anni; e di quell’Antonio Fulgoso, o per dir meglio Fregoso, che l’Ariosto ci pone innanzi come suo affezionato nel canto XLVI, st.
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