Però, non contento di questa prima rassegna, ne aggiunge un’altra ancora, delle genti saracine raccolte sotto Parigi (XIV, 11-28). Diciotto ottave, mio Dio, secche ed uggiose, se altre mai! - Ma non s’aveva una doppia enumerazione nell’Iliade? Non se ne aveva una doppia nell’Eneide?
Certo sarebbe sciocchezza il pretendere che l’Ariosto sapesse distinguere tra epopea e poemi d’arte. Egli non poteva vedere come già errassero Stazio e gli altri epici del medesimo stampo, quando, prendendo le forme omeriche, le applicavano alla cieca, senza punto discernere ciò che era semplicemente un prodotto di condizioni mutabili, da ciò che emanava dalla limpida e netta intuizione del bello. Per giungere a chiarir bene questa distinzione, ci son voluti de’ secoli. A noi adesso è molto facile l’intendere che nell’epopea vera, in cui i nipoti credono di leggere la propria storia, anche un nudo elenco di nomi deve destare vivo interesse. Vediamo chiaro come qui sia in giuoco l’orgoglio nazionale e l’orgoglio di schiatta: due [193] aspetti, e quasi oserei dire due dimensioni, d’un sentimento medesimo, che ci rende partecipi d’una gloria acquistata da altri, o non acquistata mai da nessuno. Similmente intendiamo che dove manchi questo interesse, le rassegne devono trovare nell’arte stessa una ragione sufficiente; converrà dunque farne delle scene efficacemente descrittive, o dirigerle allo scopo di presentare in massa al pubblico i personaggi dell’azione.
Queste cose, dico, ai tempi dell’Ariosto non si potevano dedurre per via di ragionamento.
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