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      Un fumo non dissimile da quello dell’Inferno ariosteo, con spiriti che vi s’aggirano, riempie il terzo cerchio del Purgatorio dantesco (Purg., XVI). E dalla Divina Commedia è pur tolto l’interrogare le ombre circa l’essere loro (XXXIV, 9), cercando d’ingraziarsele con augurî e coll’offerta di portarne le nuove tra i vivi (st. 10). Anche la qualità dei peccatori qui puniti riceve la sua spiegazione dal poema di Dante. Come l’Alighieri colloca nel primo girone infernale quanti si abbandonarono agli amori, così Lodovico pone qui nella parte suprema le donne ingrate agli amanti, cioè quelle che non avverarono in sé la sentenza, che Amore a nullo amato amar perdona. Ciò che è causa di dannazione per Francesca, sarebbe invece argomento di salute per queste infelici. È dunque una parodia bella e buona, che noi abbiam qui. Eppure sarebbe la più solenne delle corbellerie il dire che l’Ariosto volesse mettere in ridicolo la Divina Commedia. Di ciò paiono persuasi tutti quanti. Ma allora, perché applicare criterî tanto diversi ai rapporti coi romanzi cavallereschi?
      Prima d’esser portato qua dentro a far da contraltare al cerchio di Francesca, l’inferno delle ingrate esisteva già altrove, e precisamente nella Pineta di Ravenna. Ce lo può attestare Nastagio degli Onesti, il quale vide co’ suoi occhi, sentì colle sue orecchie. Vide, sentì: ce ne fa fede il Boccaccio (G. V, nov. 8a), contro il quale nessuno, spero, oserà sollevar dubbî. Gli è ben vero che già anteriormente a Messer Giovanni, altri, riferendo un caso tanto simile al suo da parere una cosa stessa, lo avevano presentato con un aspetto diverso: la donna sarebbe [538] punita per aver dato troppo ascolto, anziché troppo poco, ad un cavaliere.


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Le fonti dell'Orlando Furioso
di Pio Rajna
pagine 965

   





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