157-58): non negli atti per sé, bensì nell’espressione, leggermente infetta di convenzionalismo. Delle «belle gote», del «bel crine», faremmo grazia volentieri al poeta. Ma quel po’ d’infezione è tutto alla superficie. Ed anche i lamenti (st. 160-63), salvo in sull’ultimo, evitano i soliti scogli e riescono commoventissimi davvero. Come confronti possibili, che peraltro non conducono punto a stabilire veri rapporti di derivazione, ricorderò Argìa (Theb., XII, 322),(2165) e di nuovo Alcione.(2166)
Invece considero quasi come sicuro che l’ultima scena di questo dramma pietoso, il non rimuoversi più della donna dal sepolcro dello sposo (st. 182-85), dovette essere suggerita dalla conclusione della storia di Febus e della figliuola del re di Norhombellande.(2167) Poiché il prode cavaliere è spirato, quando tutto è finito e si crede che la donzella voglia partire (Palam., f.o 511 r.o), «Elle dist adonc: Ne plaist a Dieu que jamaiz me parte de cestui lieu. Puis que la moie aventure a esté si [563] felonneuse et si anuyeuse, que pour la moie amour a esté mort le meilleur chevalier du monde, ne je tant comme il vesqui ne li fis courtoisie ne bien, je li ferai après la mort si grant honneur, que jamaiz a jour de ma vie je ne me partirai de lui. Tousjours garderai son corps tant comme je durerai en vie. Aprez ma mort est il mestier que prez de lui gise mon corps.» Il padre, come fa Orlando con Fiordiligi (st. 184), cerca di trarla di là. Tutto è inutile. «En ceste maniere remest la damoisele en ceste cave, que elle ne s’en voult plus remuer, ne pour parens, ne pour pere»: sicché essa vi muore e vi è sepolta.
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