Presso Somadeva,(2273) Udayana vede un selvaggio che ha preso una serpe, e, impietosito, gli ordina di rilasciarla. Quegli si scusa: è povero, e vive dell’arte di addomesticar serpi con incanti. Udayana lo regala riccamente, e così ottiene la liberazione del rettile, che gli si dice tosto fratello del re delle serpi, e lo rimerita con doni pregevolissimi.
La serpe deve unicamente ai suoi stretti rapporti col mondo soprannaturale l’apparirci tante volte come un modello di gratitudine. L’impressione immediata che essa faceva era ben diversa, soprattutto nell’Occidente. Quindi la notissima favola esopiana, in cui lo schifoso rettile ricompensa col morso micidiale la compassione dell’uomo che l’aveva riscaldato nel suo seno. La favola si propagginò per ogni dove, penetrando anche nell’India.(2274) Trasformatasi nell’Oriente, ritornò poi per altre vie alle nazioni occidentali. In queste versioni di ritorno non è il freddo della stagione che ha mal ridotta la serpe: certi pastori l’avevano presa e legata ad un albero.(2275) Abbiamo quindi qualcosa che corrisponde al villano dell’Ariosto (XLIII, 78). Ma la forma che preferirei d’incontrare fra di noi, come quella che ha maggiori analogie col Furioso, trovo invece nel remotissimo Tûtî-nâmeh,(2276) dove poco mi serve. Ché, del resto, [589] la differenza, anzi l’opposizione della seconda parte, non impedirebbe di ammettere l’emanazione, quanto alla prima.
Ma qualunque sia poi l’origine, appartiene esclusivamente all’Ariosto la nuova e opportunissima motivazione della pietà che Adonio sente per la serpe (st.
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