(40) [1] Altrimenti pensò il Canello, il quale, prima in una recensione del libro mio pubblicata nella Zeitschrift für roman. Philol., I, 127, e quindi nella Storia della Letter. ital. nel sec. XVI, p. 121 sgg. (cfr. anche p. 166), assegnò al poema ariostesco alti intendimenti civili. Egli era in parte stato preceduto dal Quinet, ricordato dal Carducci, L’Orlando Furioso (nel volume di conferenze La Vita italiana nel Cinquecento, Milano, Treves, p. 226, e prima nel proemio alla maggiore delle due edizioni milanesi colle illustrazioni del Doré, p. XII); e liberamente fu poi seguito da altri, come a dire da E. Proto, Sul Rinaldo di Torquato Tasso, Napoli, 1895, p. 20. A me pare che così facendo si prenda d’assai troppo alta la mira. Certo in un poema tanto svariato l’ispirazione soffia da molte parti; e non potrebbero non ricevere continui impulsi dalla vita una mente e un cuore così sani, quali son quelli dell’Ariosto; ma che nella sostanza il Furioso sia soprattutto e voglia essere un’opera d’arte, è ancora la mia opinione. E non giudicò forse alla stessa maniera quel potente intelletto del De Sanctis (St. della Lett. ital., II, p. 15 sgg. nella 3a ed.), dal quale si potrebbe perfino immaginare che mi fosse stato suggerito nella sostanza il paragone tolto dalla pittura? Buon suffragatore ho anche il Gaspary, Gesch. der ital. Liter., II, 430. E si veda altresì il Carducci, l. cit., e più oltre, p. 231 e XIV.
(41) [1] «Ma perché varie fila a varie tele Uopo mi son,» dice nel c. II, st.
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