Suspirat lachrymis dies et horas,
Nequicquam profugum vocans maritum.
Ah! ne tu quoque nos, puella, perde.
Sat, o! sat miseri sumus, superque.
Quid demens laceras genas? quid ora?
Jam parce aureolis, precor, capillis.
Si nescis, meus est, Neaera, sanguisIstos quae lachrymae rigant ocellos.
Quod si qua est tibi cura adhuc Marulli,
Necdum perditus usque quaque in aevum est,
In te, lux mea, parcere huic memento.
Credo alludesse specialmente a questo carme il Castelvetro, allorché nella Poetica (f.o 120, ediz. 1a) ebbe a dire che «Lodovico Ariosto, prendendo hora una parte da Ovidio, et hora un’altra da Statio, et quando certa altra da Marullo, et quando altre da altri riempie il suo Orlando furioso» ecc. Del Marullo il Romizi, Riv. crit. d. Letter. it., II, 17, allega a proposito di queste ottave medesime anche un altro epigramma, che a me non par fare al caso; e neppure mi persuadono, se li guardo nel loro contesto, i raffronti suoi di Properzio (II, 12, 20), Orazio (Od., IV, 1, 3), e di quel Massimiano Etrusco, che nei tempi dell’Ariosto era gabellato per Cornelio Gallo.
(1562) [2] V. le pp. 124-28 della buona memoria in cui Fr. Lo Parco ha studiato Gerolamo Angeriano (Un Accademico Pontaniano del secolo XVI precursore dell’Ariosto e del Parini; Ariano, 1898). La conoscenza dell’Erotopaegnion, ancorché stampato solo nel 1512, è messa poco meno che fuori di dubbio da un riscontro più sicuro di cui si dirà nel cap. XVII (Fur., XXXIII, 62-64). Non è inverosimile che l’Angeriano sia da riconoscere nell’«Angiar mio» del c. XLVI, st.
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