Ne feci motto al nostro capitano, il quale mi ordinò ch'io dovessi promettere a quel tale, per mezo di Theminga, che egli con le sue persone e robe sariano salvi e, non volendo stare in quel luogo, sariano condotti a salvamento dove a loro piacesse. Avendo riferito questo a Theminga, egli volse ch'io andassi a parlare col signore di quel castello, che era detto Mustafà, ed era nativo della Caramania: e per tanto andai alla porta, appresso la quale era una fenestra quadra, e parlai col signore, il quale era venuto lí. E dopo molte parole esso mi disse che, servandogli il nostro capitano la promessa di farlo sicuro con le persone e robbe, era contento di dargli il castello. E, fattogli la detta promessa, aperse le porte, e lassò entrar me, l'armiraglio e tre compagni di galea, insieme col nostro interprete. Dimandai dove voleva essere; mi rispose che desiderava andare in Soria e, per andar piú sicuro, d'esser condotto con una delle nostre galee, lui, la moglie e la sua roba: e cosí gli promessi, ed egli incontinente seguitò di insaccar le sue robe, delle quali per avanti gran parte aveva insaccato. Uscito esso con le sue robe fuor della porta, e dietro a lui gli altri i quali erano nel castello con tutto il suo, i quali potevano essere da 150 in tutto, e discendendo giú del monte, si riscontrò col nostro capitano, il qual veniva suso con una buona ciurma di galeotti per ricevere il castello: ai quali galeotti non valsero né comandamenti né minaccie del capitano che, vedendo queste robe, non si mettessero a far preda, sí delle robe come delle persone.
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