Cosí rimasi io solo in quel loco con la mia famiglia, che in tutto eravamo cinque, abbandonati da tutti, senza danari e senza speranza d'alcuna salute, per non saper che via né che modo avessimo da tenere: qual cuore fusse il nostro lascio considerar a chi ha intelletto. A me in quel giorno da fastidio saltò la febre terribile e grande, né mi potevo medicar con altro che con l'acqua della fiumana e con qualche panetto, piú presto di semolelli che d'altro: pur alle volte con fatica ebbi qualche polastrello. Il male fu grande e con alcune frenesie, che, per quello che mi fu detto dopo, io diceva molto strane cose. Ivi ad alcuni dí s'ammalarono tre della mia famiglia, e restò solo prete Stefano, il qual attendeva a tutti. Il mio letto era una coltre assai trista, la qual mi prestò un Zuan di Valcan genovese che stava in quel luogo, e questa era lenzuoli e letto; la famiglia se ne stette con quelli pochi drappi ch'aveva. La detta malattia mi tenne fino adí 10 settembre, che certo mi ridusse a tanta estremità che li miei tenevano per certo ch'io dovessi morire: ma la ventura mia volse che la detta donna Marta aveva una borsetta e un poco d'olio, e qualche erba, la qual mi fu posta, e parve ch'io megliorassi. Ma questo conosco veramente che fu per misericordia del nostro Signor Dio, al qual piacque non mi lasciar morire in quei paesi, di che sempre sia ringraziato. Rimasti adunque tutti sinceri, ragionammo fra noi qual partito dovevamo pigliare, e deliberammo per opinion mia di ritornare adietro alla volta di Samachi per passar la Tartaria.
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