Delle quali promesse il principe moscovitico dapoi fu poco ricordevole; e quando il capitano gli diceva che si ricordasse della promessa fede, egli con vana speranza lo nutriva e beffava.
Onde Michele sdegnato, e tenendo ancora dentro il petto suo la memoria del re Sigismondo, sperava facilmente poter conseguire la grazia di quello per opera degli amici, qual egli aveva nella corte sua. E cosí uno delli suoi, persona fidatissima, al re mandò pregandolo, se l'avesse offeso, che gli perdonasse e che gli prometteva di voler ritornare. Questa ambasciata fu grata al re, e subito comandò che fossero al noncio date le lettere che egli dimandava, della fede publica. Ma conciosiaché Michele delle lettere del re non si fidasse molto, accioché piú sicuramente ritornare potesse, da Georgio Pisbeck e da Giovanni di Rechenberg, cavallieri germani, quali di tanta auttorità appresso il re e suoi consiglieri essere sapeva che potevano costringere il re, ancora che non avesse voluto, a osservare la promessa fede, simili lettere con grand'instanza dimandò e impetrò. Ma essendo il noncio di questa cosa nelle guardie di Moscovia capitato, fu preso; e saputa la cosa dal principe, comandò che Michele fosse preso.
In questo medesimo tempo un certo gentiluomo della famiglia delli Trepkoni, giovane polono, era stato mandato dal re Sigismondo in Moscovia per parlare col capitano Michele, e, accioché le commissioni del re piú commodamente esequire potesse, fingeva d'essere fuggitivo; e anche costui fu preso, e dicendo essere fuggitivo e non se gli prestando fede, fu tanto secreto che eziandio per tortura grande non volse rivelare cosa alcuna.
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