Le quali cose udí allegrissimamente messer Caterino, e lo ringraziò con molte parole dell'affezione che egli portava alla nostra Illustrissima Signoria; e accompagnatosi con un suo capitano, chiamato amarbei, Giusultan Nichenizza, andò a far la mostra delle genti di guerra del re, le quali, com'egli scrive in una sua lettera particolare, erano centomila cavalli, computati i servidori che accompagnavano i padroni, parte armati essi e i cavalli al modo d'Italia, parte coperti di alcuni corami corti fortissimi e atti a resister contra ogni gran colpo senza che l'uomo ne sentisse alcuna offesa. Altri vestivano di sete finissime, con giubbe imbottite, anch'elle sí forti che non potevano essere passate dalle saette. Altri avevano corazzine dorate e maglie, con tante arme da offesa e diffesa ch'era uno stupore a vedere come bene e agevolmente nelle fazioni se ne prevalevano. I servidori anch'essi erano benissimo a cavallo con corazze di ferro forbite, e in iscambio delli scudi che usano i nostri avevano rotelle con le quali si coprivano, e usavano scimitare finissime nella battaglia. I padroni facevano la somma di quarantamila uomini, tutti bravi soldati, e i servidori sessantamila, che mai non fu veduta in altro esercito la piú bella gente a cavallo: gli uomini erano grandi e nerbuti molto di persona, e cosí destri nel valersi dell'arme che si sono dette che una picciola banda di essi averebbe rotto qualsivoglia grosso squadrone d'inimici.
Fatta la mostra, si marchiò a gran giornate con tutto l'esercito verso il paese nimico, sendovi Pirameto signor caramano e tutt'i figliuoli del re, giovani valenti e animosi quanto piú si possa dire.
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