Una lingua o turcimanno medesimamente che don Cristoforo teneva, chiamato Giovan Gonzales, si spogliò ignudo una notte e si dipinse tutto con quella biscia che tinge di rosso, come se ne è nell'ottavo libro parlato, la quale sogliono gl'Indiani usare, dipingendosene, o nel voler andare alle guerre o alle danze e arreiti loro. Ora il Gonzales, cosí ignudo e dipinto, se n'entrò una notte fra quelli che nel ballo cantavano, e vidde e udí che cantavano la morte di don Cristoforo di Soto maggiore e de' cristiani che con lui stavano. Onde, uscito da quel luogo, quando vi vidde il tempo, ne avisò don Cristoforo e li disse quanto quelli cattivi ordinato avevano. Ma egli, come non aveva dato credito alla cacica indiana, cosí né anco al Gonzales credette, che li diceva: "Signore, questa notte ce ne potremo andare, e guardate che vi ci va la vita, e io vi condurrò per luoghi che non ci potranno ritrovare". Ma egli, perché era già giunto il suo fine, non volse farne niente.
Pure con tutto questo la mattina seguente, sentendosi stimulare nel cuore ed entrando sospetto, deliberò di partirsi; ma era fuori di tempo. Egli disse al caciche che voleva andare dove stava il capitan Giovan Ponze. Il caciche li rispose che andasse in buona ora, e fece tosto venire Indiani che l'accompagnassero e li portassero le sue robbe, e gli instrusse bene di quello che a fare avevano, comandando loro che, quando vedessero andar lor dietro l'altre sue genti, s'abbottinassero. E cosí a punto avvenne, perché, partito che fu don Cristoforo, gli andò tosto il medesimo caciche dietro con genti, e l'arrivò una lega indi lungi, in un fiume chiamato Cavio.
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