Onde tirammo il vassello in terra, e certo che per la diligenzia del maestro Giovan di Grado, asturiano e gentil pilotto, ci salvammo tutti. Ivi drizzammo il meglio che si puoté il legno, benché quasi ogni cosa necessaria ci mancasse, e poi ritornammo in mare e navigammo 200 leghe fino a Panama in otto giorni o meno, perché piacque a nostro Signore di darci buon tempo, essendo già stati piú di quattro mesi a fare l'altre cento leghe prime. E in tutto questo tempo io fui quartanario, e alcuni mesi da poi anco. E in tutto questo viaggio non avemmo mai pane né vino né altra monizione delle cose di Spagna, ma mangiavamo solo maiz e fagiuoli e delle altre cose di queste Indie. Aveamo sí bene pesce assai e altre vivande non buone, massimamente per gli infermi. Era anco questa navigazione in caravella rasa e discoverta al sole e alle pioggie, che ne avemmo molte.
Taccio le tante volte che in questi mari di qua, e in quelli di Spagna e d'Italia e di Fiandra, mi sono veduto in molte e gran tempeste d'alberi spezzati e di vele rotte e d'altri travagli, ognun de' quali pensai che fosse l'ultima ora della vita mia. Ma piacque alla clemenzia di Dio di soccorrermi, onde io li rendo infinite grazie, che s'è degnato d'aspettarmi a penitenzia, e lo prego che mi faccia finire la vita in grazia sua, e in tale stato che l'anima mia si salvi, poiché esso col suo prezioso sangue la ricomprò; che nel vero sempre in questi travagli mi ricordava delle parole di Seneca: "In fluctu viximus, moriamur in portu", cioè: "Siamo vivuti nella tempesta del mare, moriamo nel porto". E Iddio mi è testimonio che io sempre questo desiderai.
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