A tutti pareva cosa impossibile, perché noi altri non gli sapevamo fare, né avevamo ferramenti né fucina né stoppa né pece né sarte, né finalmente cosa alcuna di tante che ne bisognano in tale esercizio, e sopra tutto non avendo che mangiar fra tanto che si facessero. E cosí, considerato tutto questo, ci accordammo che si dovesse in ciò pensar con piú tempo, e cosí per quel giorno cessò quella pratica e ciascuno se n'andò, raccomandandoci a Dio che c'indrizzasse come piú gli fusse servizio.
Il dí seguente piacque a Dio che venne uno de' nostri, il qual disse che egli faria alcuni canoni di legno, e con alcuni pelli di selvaggine si farebbono alcuni folli da soffiare. E trovandoci noi a tempo che qualsivoglia cosa che avesse ogni poco di colore o d'ombra di rimedio ci pareva assai, dicemmo che si facesse, e ci convenimmo che delle staffe e degli sproni e balestre e altre cose di ferro che erano tra noi si facessero i chiodi, le seghe, l'accette e altri ferramenti, poi che tanto bisognavano. E prendemmo per rimedio che, per avere alcun sostentamento finché questo si mettesse in opera, si facessero quattro entrate in Aute con tutti i cavalli e altri che potessero andarvi, e che ogni terzo giorno s'ammazzasse un cavallo, il quale si compartisse tra quei che lavoravano nel far delle barche e tra gli infermi. L'entrate si fecero con quei cavalli e gente che fu possibile, nelle quali si portarono da quattrocento stara di maiz, benché non senza contesa e questioni con quegli Indi. Facemmo cogliere molti palmizi per poterci valere della lana e corteccie loro, torcendole e indirizzandole per usare in vece di stoppa per le barche, le quali si cominciarono a fare con un solo carpentiere che era nella compagnia nostra.
| |
Dio Dio Aute
|