Il governatore, che questo vidde, disse a fra Vincenzo se voleva andare a parlare ad Atabalipa per un interprete. Il frate disse di sí e si mosse con una croce da una mano e con la Bibia dall'altra, ed entrato fra quelle genti, quando fu dove Atabalipa stava, li disse per mezzo di quello interprete: "Io sono sacerdote di Dio, e insegno a' cristiani le cose divine, e cosí medesimamente vengo ad insegnare a voi altri: quello che io insegno è quello che il grande Iddio ci parlò, che sta in questo libro scritto. E per tanto da parte di Dio e delli cristiani ti prego che vogli essere loro amico, perché cosí vuole Iddio, e te ne verrà bene; e vieni a parlare al governatore, che ti sta aspettando". Atabalipa gli disse che li desse il libro, che voleva vederlo, ed egli glielo diede chiuso: e non indovinando Atabalipa ad aprirlo, il religioso stese la mano per volerlo aprire, ed egli con gran sdegno li diede un colpo nel braccio non volendo che l'aprisse. E instando egli stesso nell'aprirlo, l'aperse pure, e senza altramente maravigliarsi delle lettere né della carta, come solevano gli altri Indiani fare, lo gettò via cinque o sei passi da sé lontano, e alle parole che il frate per mezzo dell'interprete dette gli aveva con molta superbia rispose: "Ben so io quello che tu hai fatto in questo viaggio, e come tu hai trattati i caciqui miei, a' quali hai tolta la robba". Il religioso rispose: "Li cristiani non hanno mai fatto questo, anzi certi Indiani portarono certe robbe senza saputa del governatore, il quale quando lo seppe le fece ritornare adietro". Allora Atabalipa soggiunse: "Io non partirò di qui finché me la portino tutta". Il padre se ne ritornò con la risposta al Pizarro, e il tiranno indiano si pose in piè sopra quella lettiga, parlando co' suoi perché stessero in cervello e in ordine.
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