La Terra, immobile, è il centro regolatore del mondo; le sette orbite dei pianeti, l’ottava translucida delle stelle, e il firmamento lasciavano oltre ancora un posto all’empireo, perchè la fede vi collocasse il trono fiammeggiante di Dio e la dimora eterna degli eletti. La sua descrizione della Terra è per quel tempo completa, specie riguardo al settentrione d’Europa ed all’Africa, ed appena i moderni lo superarono nelle acute osservazioni a proposito dell’influenza dell’ambiente sugli abitanti. Così, di fronte al grande Alessandrino, si discernono appena Pausania, Dicearco, Scimno, Artemidoro, Isidoro di Carace, Dionisio Periegete, Agatemero, Marciano d’Eraclea, Agrippa, Cornelio Nipote, Stazio, ed appena ci possiamo arrestare sulle descrizioni geografiche di Cesare e di Tacito, quadri impareggiabili di natura e di costumi, e sugli itinerarii peutirigeriano e antoniano, colle loro indicazioni grossolane e prive di proporzioni, ma pratiche, documenti preziosi della romana potenza.
I barbari invasori non portarono luce, ma tenebre fitte, ed anche la geografia fu avvolta nel generale naufragio della civiltà. Fu per qualche tempo come una ridda turbinosa di imperi, che apparivano e sparivano; il nodo robusto col quale, come aveva potuto cantare di Roma un poeta gallico del quarto secolo, urbem fecisti quod prius orbis erat, era spezzato in frantumi, e quando emersero da quell’anarchia i primi Stati, le loro agitazioni, l’arbitrio che li governava, le divisioni della feudalità erano tali da sfuggire ad ogni descrizione scientifica.
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