Indarno si tracciano prossimi confini ai progressi industriali, e si annuncia imminente la pletora, non lontana la morte od una contrazione della produzione che porterebbe a molti la morte. Questa antica palude selvosa d’Europa può dirsi relativamente popolata; ma gli arcipelaghi dell’Oceania trovano appena qualche audace colono che li contenda al barbaro Malese; l’America ostenta, a fianco della più intraprendente civiltà, le intatte foreste; l’Asia sciupa l’ombra dei palmizî sotto cui si attendavano gli interminabili eserciti di Serse a proteggere i solinghi ozî e le infeconde libidini degli harem; gli altipiani dell’Africa trovano a stento chi contenda le immense loro ricchezze all’ugna delle belve e alla fantastica ferocia degli abitanti. Persino la celia muore, è vero, sul labbro quando pensiamo agli spaventosi sintomi di sfacimento morale e materiale che traspaiono pelle pelle sotto il liscio di una fastosa civiltà: le campagne squallide, le metropoli ingombre, il decadimento di intere popolazioni: ma la speranza rinasce quando si pensa ai campi aperti alla nostra attività, ai tesori che l’Africa, per esempio, ci offre, ai mercati che apre alle industrie europee, agli agi che promette alle venture generazioni, alle quali la scienza porgerà i suoi aiuti a vincere le difficoltà materiali e la esperienza soccorrerà per compiere l’adattamento dei nuovi climi.
Egli è che il rinnovamento della terra procede parallelo al rinnovamento sociale: ogni umana impronta aggiunse o tolse qualche cosa al suo aspetto primitivo.
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