Il vento avvelenato del badeh simun, privo affatto di vapore acqueo, che soffia a volte dal deserto, principalmente presso il litorale, nelle vicinanze di Bandar Abbas, è molto temuto dai viaggiatori; essi raccontano che le persone soffocate si fanno prontamente bluastre, e dai loro corpi si staccano le membra.
Si capisce con qual cura gelosa gli agricoltori persiani, quelli almeno che l'oppressione non ha distolto dal lavoro, cerchino di impadronirsi, allo sbocco delle montagne, del minimo filo di acqua, per utilizzarlo nei loro campi e nei loro giardini, dove si trasforma in succo vegetale ed in frutta. Gli acquedotti sotterranei, noti in Persia sotto il nome di kanat o kanot, sono, come nell'Afganistan, scavati con una specie di divinazione, mantenuti con zelo, poichè ne dipende la vita di tutti; quando le acque profonde vengono a mancare, in seguito al generale prosciugamento del paese o per effetto di franamenti, i villaggi vengono abbandonati. Le coltivazioni non sono possibili che nelle valli delle montagne, giacchè la Persia non è un paese dove piove l'estate; ordinariamente piove soltanto nell'inverno e nella primavera e l'estate passa tutto senza che il cielo sia turbato da un uragano. Durante questa stagione non si trova quindi un po' d'acqua se non nelle regioni alpine, dove la fusione delle nevi alimenta le sorgenti profonde; abbasso, il suolo è doppiamente prosciugato, da un canto dal calore del sole e dall'altro dal drenaggio sotterraneo dei kanat [255]. Fuori delle alte valli, il paese triste, nudo, riarso della Persia quanto poco somiglia alle regioni ideali evocate dalle poesie di Hafiz e di Sadi!
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