Non si fanno piantagioni nuove in Asia Minore, fuori delle regioni di vigneti. In nessuna parte è cominciata l'opera tanto necessaria del rimboscamento; tutto si limita a far sorgere intorno alle città ed ai villaggi i pochi alberi che sono diventati, per così dire, i compagni inseparabili dell'uomo: il platano, che si associa al suo riposo, alle sue preghiere, ai suoi giuochi, a tutta la sua vita domestica; il cipresso, che veglia sui morti. Non v'è regione dove questi alberi siano più belli e più rispettati che sul litorale anatolico. Il platano sembra destare le idee ridenti: il suo fogliame mobile, agitato dalla più lieve brezza, rinfresca l'atmosfera; abbastanza denso per ispegnere l'ardore del sole e non lasciar penetrare che una luce cinerea, non è tanto folto da nascondere la vista del cielo; lo sguardo si stende lontano tra i fusti ed i rami dalla scorza chiara, senza alcuna regolarità monotona. L'abitudine ha fatto del platano un albero quasi sacro: in certi villaggi gli abitanti, troppo poveri per fabbricare un minareto accanto alla loro moschea, erigono una piattaforma di legno sul ramo orizzontale di un platano, d'onde il muezzino invita alla preghiera, circondato da piccioni, che beccano i grani sparsi a' suoi piedi. Il cipresso riceve pure una parte della venerazione che si nutre per gli avi; ma non ha la cupa rigidità de' suoi congeneri dell'Occidente: più alto e più largo ha l'aspetto meno regolare, la ramificazione più libera, e forma gruppi mirabili; il cimitero è di solito quello che ha di più bello la città d'Oriente.
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