Forse le esplorazioni future riveleranno qualche oasi sulla periferia di questo oceano di dune. Là dove de Wrede lo abbordò, a nord dell'Hadramaut, il deserto, chiamato in quel punto El-Akhaf, non ha un arbusto, non un'erba; dall'alto dell'altipiano, che domina dall'altezza di circa 300 metri la distesa sabbiosa, non si vede che un'onda dietro l'altra sull'immenso mare di sabbie: in nessuna parte si distingue una traccia di vegetazione; nessun uccello vola sopra la pianura silenziosa. In quest'oceano di dune s'aprono gli abissi temuti, che sono chiamati Bahr-el-Safi o "mare di Safi", dal nome d'un re, probabilmente leggendario, che vi fu inghiottito con tutto il suo esercito. I Beduini dicono che tesori immensi si trovano nel fondo di quegli abissi sotto la protezione dei genî, ma non tentano punto di conquistare queste ricchezze, e nelle loro escursioni sul lembo del deserto evitano accuratamente queste buche, riconoscibili da lontano per la bianchezza abbagliante delle sabbie, che contrastano coll'arena giallastra delle dune circostanti. De Wrede dovè avvicinarsi da solo. Munito d'un bastone per iscandagliare il suolo ad ogni passo, giunse fino all'orlo pietroso dell'abisso: il bastone s'affondò nella polvere bianca come nell'acqua; una pietra del peso d'un chilogramma, attaccata ad una cordicella lunga 110 metri, disparve tosto; cinque minuti dopo l'estremità della funicella, trascinata dal peso, spariva a sua volta. I Beduini, pallidi di terrore, assistevano da lontano al colloquio del viaggiatore cogli spiriti [1136]. La fluidità della sabbia sul Bahr-el-Safi non si può spiegare se non coll'esistenza di correnti, di strati d'acqua o d'altri corpi liquidi, come la nafta.
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