Ed oggi i pellegrini non sono più accompagnati sempre, come una volta, dal colera, dalla peste o dal tifo.
Le cerimonie del pellegrinaggio non sono complete, ed i visitatori della pietra nera non hanno il diritto di prendere il titolo di hagii, se non vanno anche a pregare Allah sui pendii della santa montagna d'Arafat, che sorge a sette od otto ore di strada a nord-est della Mecca. È un dosso granitico, alto 60 metri soltanto sopra la pianura circostante, ma con parecchi chilometri di giro alla base; deve forse la sua santità tradizionale agli occhi degli Arabi alla sorgente abbondante, che scaturisce da una fessura della roccia e che la sultana Zobeide, moglie di Harun-ar-Rascid, fece imprigionare per condurla alla Mecca con un acquedotto in parte sotterraneo; ma il canale, mal riparato, lascia trapelare l'acqua dai serbatoi stabiliti nel suo percorso, e la città non ne riceve più che una lieve parte. Il giorno in cui la folla dei pellegrini, accresciuta degli abitanti e della guarnigione della Mecca, si reca verso il monte Arafat, la valle dell'Uadi Muna, cui risale la strada, è troppo stretta per accogliere quelle moltitudini, e nelle chiuse la calca è tale che l'onda non può avanzarsi se non dopo ore di ritardo. Nel 1816, all'epoca della visita di Burckhardt, e nel 1882, secondo la Commissione sanitaria internazionale, circa 70,000 pellegrini si pigiavano colle loro cavalcature intorno alla montagna, e la pianura era coperta di Beduini, sopratutto di genti dell'Assir, aventi seco le loro mandre per venderle agli hagii come vittime del sacrifizio.
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