Le acque raccolte a fiumi da sorgenti senza numero, in terreni che a Livingstone parevano spugne, dilagano poco oltre nei naturali avvallamenti dell’altipiano, e nelle fessure aperte da terremoti preistorici, poi si raccolgono nelle valli anguste, scendono torrenti dalle montagne, o, come pareva agli Egizi del loro Nilo, «dal grembo di colossali deità», dissolvendosi in cascate niagariche, o correndo per chilometri, come freccie lanciate tra una ruina di scogli. Più o meno lontano dalla marina dilagano in estuari sconfinati, formando lagune, maremme, impaludamenti vasti, foreste acquatiche, dove la navigazione è lenta, l’aria micidiale, impossibile o fatale all’uomo, nonchè la dimora, la traversata lenta e faticosa.
Così fatta, l’Africa è necessariamente impervia, specie all’Europeo. Per navigare su quei fiumi, i nativi hanno canotti leggierissimi, che portano sulle spalle e dirigono con destrezza mirabile, i viaggiatori hanno appreso a recare barche di guttaperca, o vapori che si smontano a tutt’agio: così furono navigati a vapore il Lago Alberto e il Tanganica, così Decken superò le cateratte del Giuba, i missionari percorrono il Niassa, e così si navigano oramai il Congo ed i suoi maggiori affluenti. Ma il trasporto di cotesti vapori è difficile e dispendioso, sì che giova solo là dove le grosse spedizioni sono state precedute da pionieri sciolti da qualsiasi impaccio. Il disagio grandissimo dei trasporti è infatti un altro grave ostacolo delle esplorazioni africane. Le carovane attraversano il Sahara sul dorso dei cammelli; nella cuspide australe, i bufali trascinano per le trazzere malamente segnate i carri rozzi e pesanti sui quali vivono intere famiglie.
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