La città, la cui superficie è solamente di 48 ettari, contrasta colla maggior parte delle città etiopiche, le cui capanne sono disposte in disordine sopra uno spazio considerevole; le sue 9500 case a terrazze, fabbricate di tufo pieno di vegetali fossilizzati, sono pigiate le une contro le altre e racchiuse in un baluardo di pietre fiancheggiato da torri merlate. Le dimore hanno rare aperture su stradicciuole strette, salienti e tortuose; le piazze poco numerose ed irregolari si trovano per lo più accanto alle moschee; lo spazio libero più vasto, chiamato il Meidam, occupa il sommo della collina. La fisionomia di Harar è quella di tutte le città arabe. Gli Hararini, quasi tutti mercanti, sono musulmani fanatici, ma di setta sciita, come i Persiani e diverse tribù dell’Arabia meridionale; da questi paesi vengono probabilmente i missionari che convertirono alla loro fede i Somali ed i Galla, la cui discendenza costituisce la popolazione attuale della città. Quando gli Hararini si riuniscono per masticare foglie di kat (celastrus edulis) non meno apprezzato da loro come eccitante di quel che lo sia dagli abitanti del Yemen, essi cominciano e finiscono la giornata colla lettura del Corano e con rendimenti di grazia «perchè quella pianta dei santi permette di vegliare più a lungo la notte per adorare il Signore».
La società hararina si distingue da tutto il resto del mondo musulmano per il rispetto di cui circonda la donna. Prima dell’arrivo degli Egiziani nel paese, uno solo degli abitanti di Harar, l’emiro, aveva più di una moglie(450). I divorzi, così comuni negli altri paesi dell’Islam, son rarissimi in quella città. D’altronde le donne camminano col volto scoperto, e vanno anche al bazar per vendervi le derrate dei loro orti; gli uomini si incaricano della parte più faticosa dei lavori.
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