Un’altra piramide, quella di Howara, alta una trentina di metri, si innalza al di là della stretta dell’entrata, già nel bacino circolare di Fayum, l’antico «paese del Mare». Formata da un nodo roccioso, al quale si appoggiavano pianelle di mattoni di limo del Nilo, la piramide non ha più, come quella di Illahun, che l’apparenza di un monticello naturale; ma essa è ben conservata, in confronto del palazzo del quale Lepsius crede aver trovato quel «Labirinto», che comprendeva due piani di mille cinquecento camere ciascuno, e ove il visitatore si perdeva in infiniti rigiri. Delle splendide costruzioni del Loparohun, o «Tempio della Bocca del Canale», non rimangono più che ammassi di macerie, mura in mattoni, vestigia di portici, e rari frammenti di scolture in calcare o in granito; vi si sono scoperti anche una testa di sfinge reale come quelle di Sän; gli Hyksos (Re pastori) sarebbero dunque penetrati anche in questa parte dell’Egitto(826). Un papiro conservato al museo di Bulaq, descrive minutamente l’antico edificio e serve di guida agli archeologi che cercano di ricostruirne il piano. Una massa liquida di sette chilometri di larghezza, il lago Meride, cinto di dighe che qua e là si riconoscono ancora, separava altra volta il Labirinto da una delle grandi città dell’Egitto, Pasebak, o la «città dei Coccodrilli»; conosciuta al tempo dei Tolomei sotto il nome di Arsinoe, occupava una vasta superficie; muraglie, un obelisco spezzato, altri frammenti provano che essa si stendeva almeno per uno spazio di otto chilometri dal sud al nord(827); in alcune tombe furono scoperti papiri della maggior importanza in lingue diverse, egiziana, ebraica, greca e anche pelvi; i manoscritti greci forniscono varianti di Tucidide, di Aristotile, degli Evangeli.
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