Sin da principio però il Governo italiano mostrò di non dare all’impresa l’importanza che meritava o di lasciarne la cura a funzionari paurosi sopratutto di qualsiasi responsabilità. Così gli esploratori arrivarono a Zeila sopra una sconnessa barca araba, ed ivi si trovarono alla mercè di Abu Baker, astuto ed avido sultano del luogo, che pagava tributo alla Turchia per poter governare a suo talento i commerci, specie d’uomini, con lo Scioa ed i paesi galla. Rubò ai nostri, e a man sicura, quanto non potè loro lasciare, indugiò, finchè ebbe pretesti, la loro partenza, e non li lasciò se non quando ebbe compiuti gli accordi cogli sceicchi che li doveano spogliare del restante. La via che da Zeila adduce dentro lo Scioa è facile; non ha montagne, non paludi, non fiumi; appena qualche ondulazione di roccie e guadabili torrentelli, eccetto l’Auash, fiume ampio e impetuoso: una via, insomma, che si potrebbe ridurre presto carreggiabile. Sono ottocento chilometri di deserto, nelle cui oasi, Alheadda, Ferad, Arro, Uarof, Aruè, Tull-Harrè, Aliballah, non mancano cammelli e miti ombre d’alberi pel riposo delle carovane. Ma ai nostri non sorrise la fortuna; allo studiato disprezzo e allo strazio indegno di Abu Baker seguirono le fatiche servili, gli stenti del deserto, le guide insidiose, le scorte infide. A dir breve, il Martini dovette tornare il 23 luglio a mezza via per cercar nuovi aiuti, e Antinori arrivò nello Scioa quasi solo, come un fuggiasco.
Tornato a Roma nel settembre 1876, il Martini raccolse nuovi sussidi d’ogni maniera, e tolse seco, tra i molti che instavano, un bravo capitano di mare, Antonio Cecchi, col quale il 16 maggio 1877 mosse da Zeila, e dopo più di tre mesi, salvando appena una parte del grosso bagaglio, causa le guerre fra le tribù lungo la via, riuscirono allo Scioa.
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