Ma i nostri non erano andati in Africa per conoscere appena i regnicoli tributari dell’Etiopia e le tribù selvaggie del litorale. Così Cecchi e Chiarini si accinsero a un viaggio se altro mai nuovissimo e audace. Già da Anduodi a Tuccà trovarono loro avversi o diffidenti i tirannelli delle tribù Soddo; ma come entrarono nel Cabiena, dovettero tenersi per ispacciati o costretti a fuggirne, rinunciando all’impresa. Non conobbe la feudale Europa, non conobbe l’America nei primi anni della conquista più selvaggia anarchia e più feroci tirannidi di coteste, onde sono desolate tutte quelle piccole e gelose agglomerazioni di uomini. Tornato Chiarini da una escursione tra i Guraghé, penetrarono nel Limmu, abbreviando con incredibili audacie trattative che non sarebbero finite mai. Crescevano le privazioni, e sempre più duramente li percuoteva la febbre, ma nè la perdita di ogni cosa loro, e quasi perfino del più necessario, nè l’incontro di una carovana diretta al Goggiam, nè le crescenti minaccie di morte, suscitarono in petto agli animosi alcuna idea di ritorno.
Penetrarono così nel regnucolo di Gomma, come già nel Limmu, poi nel Ghera. Era ivi arbitra dello Stato una sospettosa e capricciosa regina, la quale spiegava nella politica tutta la potenza d’intrigo, che le aveva procurato già famosi amori.
La regina tenne prigioni i nostri, ai quali fu pur giocoforza convincersi alla perfine, che era impossibile continuare il viaggio sino a Caffa, e più in là, tra così grandi e varie difficoltà e con mezzi scarsi, anzi nulli.
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